top of page

Bechis racconta J.D. Vance: il vice sceriffo del nuovo conservatorismo americano

  • paceflaminia18
  • 13 ott
  • Tempo di lettura: 3 min

In tempi in cui la politica occidentale sembra oscillare tra l’astrazione ideologica e la bulimia dell’immagine, Franco Bechis con "J.D. Vance. Il vice sceriffo" firma un piccolo libro di osservazione e di scavo: rapido nella forma, ma denso di implicazioni. Non è un’agiografia, non è un instant book, e nemmeno un saggio di geopolitica. È, piuttosto, un ritratto scritto con la curiosità di chi vuole capire il significato di una figura che oggi incarna la ridefinizione del conservatorismo americano, e che potrebbe presto pesare sul piano globale.


Copertina del libro di Franco Bechis "J.D. Vance. Il vice sceriffo"

Bechis segue Vance non come un fan, ma come un cronista. La narrazione parte da un’America interna, marginale, dove il declino industriale e il disincanto politico si mescolano. L’infanzia povera nell’Ohio rurale, la famiglia segnata da assenze e riscatto, la figura centrale della nonna - la “Mamaw” - che lo salva educandolo al rigore e alla sopravvivenza: tutto concorre a costruire un personaggio che somiglia più a un eroe dostoevskiano che a un senatore repubblicano. È in questo radicamento che Bechis individua la chiave del suo successo. Vance rappresenta quella porzione d’America che l’élite liberal ha abbandonato, l’America che non chiede compassione ma riconoscimento.


Il libro mette a fuoco la metamorfosi di Vance: dall’autore di Hillbilly Elegy, che raccontava il fallimento del sogno americano, al politico che oggi affianca Donald Trump come voce della working class bianca, dei piccoli imprenditori, dei veterani e degli esclusi. Bechis non nasconde le contraddizioni: Vance è passato attraverso la Silicon Valley, il mondo della finanza e la formazione accademica di Yale. Ma proprio quel transito lo rende interessante. Non è l’ennesimo populista da talk show, bensì un uomo che ha conosciuto l’establishment dall’interno e ha scelto di restituire la parola a chi ne era rimasto fuori.


Centrale, nella ricostruzione di Bechis, è la dimensione morale. La conversione religiosa di Vance, la sua riscoperta di autori classici e del pensiero comunitario, la convinzione che libertà e responsabilità siano inscindibili: tutto questo forma la cornice del suo conservatorismo. Un conservatorismo diverso, più sociale che libertario, più etico che economico. Bechis lo presenta come una forma di “realismo morale” che sfugge alle etichette, una visione dove il capitalismo è tollerato ma la comunità è sacra, e dove la povertà non è una colpa ma un destino da redimere.


Il dialogo con l’Europa, e in particolare con l’Italia, è uno dei capitoli più interessanti del volume. Bechis descrive gli incontri di Vance con Giorgia Meloni, Salvini e Tajani, i pranzi istituzionali, le strette di mano e le conversazioni informali in cui il senatore dell’Ohio confessa di non capire l’italiano ma di “sentire” la lingua. Non sono aneddoti mondani: sono segnali. L’Italia, che Vance non cita mai nei suoi discorsi come Paese “problema”, diventa un punto di riferimento per la nuova alleanza conservatrice occidentale. Un’Italia che parla con il linguaggio della serietà e della sovranità, non più come ancella di Washington ma come interlocutore adulto.


Bechis suggerisce, senza dirlo apertamente, che tra Meloni e Vance esista un’affinità di visione: la difesa dei ceti produttivi, la centralità della famiglia, la valorizzazione del merito, il recupero di un’identità nazionale non apologetica ma consapevole. In questo senso Il vice sceriffo è anche un riflesso del conservatorismo italiano contemporaneo, che guarda oltre la contingenza e tenta di ritrovare un equilibrio tra radici e modernità.


Non mancano, nel testo, gli spigoli. Bechis ammette che la figura di Vance divide: troppo pragmatico per i trumpiani puri, troppo radicale per i moderati del GOP, troppo cristiano per i libertari. Eppure proprio in questa tensione si misura la sua forza: Vance rappresenta la possibilità di un conservatorismo non urlato ma consapevole, capace di coniugare fede e tecnologia, famiglia e geopolitica. Bechis riesce a mostrare come dietro la retorica del “Make America Great Again” ci sia, almeno per Vance, il desiderio di una nazione morale più che imperiale.


Nelle ultime pagine, l’autore si concede un registro quasi letterario, da osservatore più che da analista. Dice che chi parla di ordine e identità porta sempre una ferita dentro. E ha ragione. Vance non è solo un politico: è il prodotto di una civiltà che ha perso fiducia in sé stessa e cerca, nel ritorno ai valori, una forma di redenzione.


Il vice sceriffo non è un libro su un uomo solo, ma sulla stagione che lo ha reso possibile. È il racconto di come la destra, in America come in Europa, stia cercando un nuovo linguaggio: meno finanziario, più culturale; meno tecnocratico, più umano. Bechis lo scrive con la leggerezza del giornalista e la precisione dello storico: senza moralismi, senza infatuazioni, ma con l’intuizione che il futuro del conservatorismo passerà anche da figure come J.D. Vance - uomini che non parlano ai salotti, ma alle periferie, anche dell’anima.

 
 
 

2 commenti


Corrado Pace
Corrado Pace
14 ott

Bravissima Flaminia

Mi piace

Sonoalep Sonoalep
Sonoalep Sonoalep
13 ott

👍

Mi piace
bottom of page